Classe 2°B Liceo
FEDERICO
Tutti i suoni sono ovattati. Le ruote del lettino scricchiolano. Le grida dei medici sono a malapena percepibili. Le luci sono accecanti, chiudo gli occhi. Sento il battito del mio cuore che rimbomba nelle orecchie. L’ultima cosa che ricordo è il panico dipinto sul volto di Andrea. Poi il buio.
ANDREA
Vedo Federico mentre i dottori spingono il lettino verso la sala operatoria. Non posso fare altro che rimanere a guardare, mentre i sensi di colpa mi divorano l’anima. Riesco a malapena ad uscire dall’ospedale, le gambe non reggono il peso che grava sulla mia coscienza, le lacrime che cercavo di trattenere iniziano a scendere. Soltanto un mese dopo ho la forza di ripresentarmi in quel posto maledetto. Abbasso lo sguardo per la vergogna, le mie mani cominciano a tremare. Raccolgo tutto il coraggio che mi è rimasto ed entro. Mi dirigo verso il reparto di terapia intensiva e chiedo ad un’infermiera dove si trovi Federico. Camminando per i corridoi, riaffiorano i ricordi di quel dannato giovedì pomeriggio. Non faccio in tempo ad aprire la porta della sua stanza che mi perdo nei miei pensieri. Non era esattamente la persona più popolare della scuola. Dopo essere tornato da un lungo viaggio, Federico si era chiuso sempre più, fino ad attirare l’attenzione di Greta, una ragazza altezzosa, egocentrica e superficiale. Lei era la classica ragazza popolare: alta, con grandi occhi che sembravano scrutarti l’anima, lunghi capelli neri che incorniciavano il viso, carico di trucco. L’avevo conosciuta per caso, durante una gita, poco dopo che Federico se ne era andato, senza un’apparente motivo. Era stata molto gentile nei miei confronti e non potei fare altro che innamorarmi di lei. Con lei mi sentivo meno insicuro e isolato. Solo in seguito capii quanto grave fu questo errore. A mano a mano che si apriva con me, mostrava la sua vera natura: era prepotente, aggressiva e impulsiva, ma, nonostante ciò, non riuscivo ad allontanarmi da lei. Non so cosa stia facendo adesso, l’unica cosa che spero è che, prima o poi, si penta di quello che ha fatto.
GRETA
Sono seduta nella mia stanza, sono settimane che non dormo e non mangio regolarmente, non vado neanche più a scuola, per paura del giudizio altrui. Ora capisco come dovevano sentirsi quando li prendevo di mira. Continuo a ripensare a quel giovedì pomeriggio, quando spinsi Federico giù dalle scale. In quel momento capii che avevo toccato davvero il fondo, non potevo più tornare indietro. Erano le 13:30 e la giornata scolastica era giunta al termine; tutti i nostri compagni erano usciti e in classe eravamo rimasti in tre: io, Andrea e Federico. Come era mia consuetudine, cominciai a deridere Federico, mentre lui mi ignorava come al solito. Così, giunti alle scale, gli rovesciai addosso una bottiglietta di acqua e gli lanciai una manciata di gesso. Lui si girò e mi fissò negli occhi. Mi guardò con uno sguardo carico di frustrazione e rabbia accumulata durante i mesi, ma non disse nulla; in quel momento cominciò ad avanzare verso di me: mi sentii gelare. Era la prima volta che provavo questa sensazione, presto mi resi conto che era paura. Reagii d’impulso e la prima cosa che feci fu spingerlo lontano da me. Chiusi gli occhi e lanciai un urlo, pronta ad affermare che mi avesse aggredita. Sentii un tonfo e quando riaprii gli occhi la scena che mi ritrovai davanti era, a dir poco, tragica. Non riuscii a sopportarne la vista e corsi via non curandomi di Andrea.
ANDREA
Greta mi lasciò lì, e io mi sentii abbandonato una seconda volta in una situazione più grande di me. In un primo momento pensai di lasciarlo a terra privo di sensi, poi fui troppo spaventato perfino per andarmene, e chiamai un’ambulanza. Lo vedo sdraiato sul lettino, inerme. Mi avvicino a lui, le lacrime minacciano di scendere ancora. Metto una mano in tasca e tiro fuori una margherita, che appoggio delicatamente sul suo comodino insieme ad un biglietto. Esco dall’ospedale e comincio a camminare senza una meta precisa, mi sento perso, vuoto e solo. Riaffiorano i ricordi di quando io e Federico eravamo piccoli ed eravamo soliti giocare insieme, liberi e spensierati. Mi ricordo di quando nella casetta sull’albero ci raccontavamo tutto e ci divertivamo, di quando andavamo a guardare i treni che passavano, dei pomeriggi invernali passati a studiare e a giocare. Come ho potuto lasciarlo solo? Come ho potuto rinnegare la nostra amicizia? Adesso è troppo tardi, troppo tardi per cambiare le cose. Riemergo dai miei pensieri e mi accorgo di essere arrivato in stazione. Sento la voce metallica dell’altoparlante che ripete la solita monotona frase “Treno in avvicinamento, allontanarsi dalla linea gialla”. Io invece faccio un passo avanti. Tutti i suoni sono ovattati. Le ruote del treno stridono. La luce del sole mi acceca, chiudo gli occhi…